7.09.2025 – Una elegante ma imperfetta lezione di suspense che sceglie l’ambivalenza e si muove fra apparenza e sospetto, rifuggendo ogni nettezza di posizione.
Voto: ★★1/2
Una elegante ma imperfetta lezione di suspense che sceglie l’ambivalenza e si muove fra apparenza e sospetto, rifuggendo ogni nettezza di posizione.
Guadagnino instilla dubbi e apre a letture del reale che rifiutano le semplificazioni precostituite nel suo After the Hunt presentato fuori concorso a Venezia 82. Un thriller borghese che plasma ed è plasmato da una intensa Julia Roberts nei panni di Alma Olsson una stimata professoressa di Yale. Nel rarefatto e settario ambiente universitario, splendidamente reso da una raffinata fotografia, asettica ed asciutta, che predilige le mezze tinte alla decisione cromatica, si fa strada lo stigma dell’accusa e della molestia. Ad esserne travolte le due persone accademicamente (e forse non solo) a lei più vicine: la sua pupilla e studentessa modello ed il suo collega e contendente cattedratico, portato sulle scene da un credibile Andrew Garfield che trasferisce il recitato sul registro sanguigno e veemente.
Il sospetto non attende conferme: altera equilibri e gerarchie scalfendo la serenità di facciata e con essa la fragile apparente fratellanza intellettuale (emblematica la mutata interazione con la collega psichiatra, una Cloë Sevigny evanescente). Alma suo malgrado è un’equilibrista misurata che diviene ago di una bilancia che oscilla senza inclinarsi (in alcun senso) e chiama la protagonista a introflettersi per scavare nei propri recessi e adottare rispetto a se stessa quella posizione che pilatescamente omette di assumere sulla vicenda.
Quel che rileva, in realtà, per Guadagnino, non è affatto la nettezza di schieramento ma al contrario il nutrimento dell’incertezza per generare domande e riflessione. L’obiettivo, anche dichiarato, è mettere in crisi se non discutere il perbenismo aprioristico, l’oltranzismo woke, il retroterra Me Too che, guarda caso, ha trovato casa proprio nelle più blasonate realtà accademiche statunitensi.
Il limite del film, però, che può farsi forte di una scrittura convincente e coerente con le intenzioni, sta proprio in questo, nel percorrere un terreno limbico, spogliato di giudizi di valore, che possa consentire ad ogni sguardo di categorizzare il mostrato secondo la propria sensibilità. Una scelta di comodo che conduce ad un racconto monco che rischia di ingenerare pericolosamente l’idea che il tema della tutela sia abusato più di quello dell’abuso stesso e dunque che talvolta la strumentalizzazione travisi artatamente la realtà.
After the Hunt, pertanto, nonostante il proposito insito nel titolo, si arresta prima della fine della caccia, incagliato nel peso mediatico dell’onta piuttosto che sulla ricerca della verità, in una spirale di eventi e reticenze che paiono privilegiare l’estetica all’etica.
Simon