6.11.2017 – In questi giorni è andato in scena, presso il Teatro Abeliano di Bari, Il Sogno di un Uomo Ridicolo di Fedor Dostoevskij, per la regia di Gabriele Lavia, con Gabriele Lavia e Lorenzo Terenzi. L’allestimento è stato curato dal Laboratorio di Costumi e Scene del Teatro della Pergola di Firenze e lo spettacolo rientrava nella rassegna di prosa del Teatro Pubblico Pugliese di Bari.

Quando si parla di autori russi siamo preparati a storie molto lunghe ed impegnative e anche Dostoevskij non è da meno, tuttavia Il Sogno di un Uomo Ridicolo, scritto intorno al 1876 e inizialmente inserito nel Diario di uno scrittore, rientra in quei libri brevi ma di meravigliosa intensità.

Lavia ha portato in scena uno dei suoi cavalli di battaglia, una storia di quelle che leggi da giovane e ti rimane dentro fino a che, dal profondo, non sale su un palco per diventare storia viva, da raccontare ad un pubblico che ha mostrato all’autore tutto il suo entusiasmo e la sua stima.  

La prima volta lo lessi a degli amici a 18 anni e ancora non ero un attore”, ricorda Lavia: “ Oggi è passata una vita e il Sogno è quasi un’ossessione.[…] Il sogno di un uomo ridicolo è forse la più sconcertante opera di Dostoevskij, […] narra la situazione paradossale di un uomo che, decidendo di suicidarsi, si addormenta davanti la rivoltella e sogna il suicidio e la vita dopo la morte”.

Esausto e avilito, reietto e abbandonato da tutti, costretto in una metaforica camicia di forza da un mondo che lo definisce “ridicolo”, l’uomo ripercorre un viaggio onirico che comincia nella sua misera casa. Una scrivania con qualche libro, una poltrona alla Voltaire, una candela accesa, una rivoltella sulla scrivania, la solitudine, l’idea del suicidio.

Così inizia il sogno dell’uomo ridicolo,  un viaggio lungo e sofferto verso un pianeta diverso, del tutto simile alla Terra tranne che per l’animo dei suoi abitanti, puri e innocenti. In quella purezza lui, per la prima volta, non viene additato come ridicolo.

Afferma Lavia: ”Ho scelto di rimetterlo in scena per riaffermare con forza come l’indifferenza, la corruzione e la degenerazione non possano essere le condizioni di vita della nostra società”

Una vera e propria denuncia, quella di Dostoevskij allora e di Lavia oggi, al malcostume imperante di una società indifferente, egoista, avida e dominata dalle pure leggi della logica e della scienza, incapaci di legiferare sulla felicità.

All’uomo chiuso nella sua camicia di forza è impedito qualunque desiderio di fare una buona azione, concetto appunto “ridicolo”.

Eppure, solo un amore incondizionato verso l’altro può portare l’uomo ad essere felice. Il messaggio d’amore di Cristo chiude la pièce in maniera sottilmente ironica, nulla di nuovo all’orizzonte dunque, ma solo un concetto evidentemente ancora non ben attecchito.

Personalmente era molto tempo che non mi capitava di commuovermi a teatro. Siamo abituati alla sofferenza, forse così tanto che abbiamo smesso di interrogarci su di essa. Ci tocca, è la nostra croce e la subiamo passivamente, eppure nel lavoro di Lavia, il dolore dell’uomo ci interroga, ci scuote, ci esorta violentemente a cercare una soluzione. Non tutto “ci tocca”, a qualcosa possiamo anche porre rimedio. Come? Amando, sempre, comunque e nonostante tutto.

Manuela Bellomo

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