13.08.2015 – “Cronaca dal Convento di Santa Pasca con annesso Conservatorio per le orfanelle”  è una chicca messa in scena in un teatro, come il Van Westerhout di Mola di Bari, che si può solo definire un bon bon per la sua bellezza.

A questo punto la commedia messa in scena da Paolo Panaro diventa davvero irresistibile e così in effetti è stata: godibile, divertente e ben fatta come tutte i suoi lavori, grazie anche alla preparazione e all’affiatamento di tutti gli attori.

“Cronaca dal Convento di Santa Pasca con annesso Conservatorio per le orfanelle” è una commedia rielaborata da un’opera di Gioacchino Dandolfi (Le religiose alla moda), autore minore nel panorama drammaturgico napoletano del ‘700.

Siamo all’interno di un convento femminile del sud dove le monache fanno a gara per accaparrarsi la predilezione del padre confessore. Per far questo emergono tutta una serie di stereotipi portati all’esasperazione: la monaca gelosa, la monaca ipocondriaca, quella pettegola.

Nel Settecento a Napoli questa commedia veniva messa in scena, a Carnevale, dai sacerdoti che indossavano le tonache delle monache e giravano per i conventi ad allietare le religiose con le loro stesse facezie.

Benedetto Croce, attirato da questa commedia affermò: ”le monache spettatrici dovettero riderne assai, riconoscendo la verità e accettando la blanda giustizia che su loro si esercitava da chi le conosceva a mente” e cioè lo stesso Dandolfi, sacerdote e confessore di monache egli stesso, che aveva dunque modo di conoscerne bene i comportamenti e la capacità di saperli riportare con gusto e divertimento.

La storia, raccontata da Dandolfi e rielaborata da Panaro, ci racconta dello strapotere maschile sulle monache, quello del confessore e quello del medico a cura della loro anime e del loro corpo.

Le religiose costrette ad un regime di convivenza forzata esprimono la loro insofferenza mediante manie, nevrosi e pregiudizi.

La supremazia maschile viene sottolineata anche dalla lingua, un volgare toscano, freddo e affettato in contrasto con l’utilizzo che le suore fanno della loro lingua madre del sud, unico aspetto su cui lo strapotere maschile non può funzionare.  In scena dunque anche  l’antica diatriba tra il volgare toscano, linguaggio colto per eccellenza e il napoletano, assieme alle altre lingue meridionali. Dandolfi è l’ultimo dissidente di una lunga e colta schiera di scrittori meridionali (Basile, Cortese, Sarnelli,ecc.) che, a partire dalla fine del Cinquecento, hanno messo in dubbio il primato del volgare a favore del napoletano e delle altre lingue meridionali.

Regia di Paolo Panaro
con Elisabetta Aloia, Francesco Lamacchia, Vito Lopriore, Matteo Martinelli Paolo Panaro, Virginia Quaranta, Antonio Repole, Rosaria Ximenes

Angelo De Leonardis baritono, Debora Del Giudice clavicembalo
Clelia Sguera violino, Paola Ventrella tiorba
maestro di canto Angelo De Leonardis
assistente alla regia Giulia Sangiorgio
collaborazione ai costumi Luigi Spezzacatene

Manuela Bellomo